giovedì 3 settembre 2015

Massimo Troisi nei ricordi della sorella Rosaria, dieci anni fa

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La migliore chiave di lettura per capire Massimo è di estreme semplicità e tenerezza. Basta vedere cos'è successo dopo di lui per comprendere quanto sia riuscito a entrare nel cuore di tutti. Vedere com’è ancora forte la voglia di tenerlo con noi, nel calore della vita, grazie al suo ricordo costante, basta per rendersi conto di come abbia saputo vivere una vita piena e intensa, anche se troppo breve. Per noi della famiglia Massimo non è mai cambiato: quando tornava a casa era sempre talmente uguale a se stesso che non ci eravamo resi conto fino in fondo del suo successo, del suo lavoro. Con lo sgomento della sua scomparsa è arrivato anche lo stupore di prendere atto di quanto le cose che aveva fatto fossero importanti. Lui diceva sempre di essere fortunato. Un privilegiato che poteva esprimersi nel modo che gli era più congeniale, ma era pur sempre lavoro e Massimo, tornando in famiglia, non parlava quasi mai del lavoro. 

Noi preferivamo andarci cauti, sapevamo bene quali problemi avesse avuto in passato e preferivamo avvicinarci a simili argomenti in punta di piedi: ho sempre pensato che la vita gli dovesse un risarcimento, quello di poter godere in modo completo dell’esistenza, dopo un inizio che era stato tanto avaro. Noi siamo una famiglia semplice, lo dico con orgoglio, senza evocare cliché e stereotipi: mio padre ha sempre lavorato, era nelle Ferrovie, non si navigava certo nell'oro, ma avevamo una vita dignitosa e, soprattutto, molto «viva». Come diceva sempre Massimo, parlando del modo in cui siamo cresciuti: «Se si’ imbecille, diventi imbecillissimo, se si’ umano, umanissimo». Ecco, lui è diventato umanissimo, con quei piccoli difetti come la pigrizia, l'indolenza e la capacità di astrarsi da ogni conversazione, se non aveva voglia di ascoltare, ma con pregi giganteschi: una semplicità disarmante, una lealtà assoluta e una mitezza totale che gli impedivano di essere scortese persino con quelli con cui non andava d'accordo. Anche in casa, persino nei momenti di «scontro generazionale» con il padre, non ha mai alzato la voce. Se contestava, lo faceva sempre in modo elegante, intimo, civile, proprio come ha poi fatto nel «Postino». Del resto Massimo ha mantenuto sempre il contatto con le radici, con gli amici della giovinezza, a San Giorgio a Cremano. E quando sono arrivati gli amici della vita professionale, erano sempre speciali, come Roberto Benigni: del resto sono molto simili, sarebbero diventati amici comunque. In famiglia, quando al telefono sentivamo che c'era qualche nuova fidanzata, lo «sfruculiavamo» citando Viviani: «Femmene belle, sempre 'na dozzina», ma Massimo era molto riservato. Come diceva, «le famiglie numerose diventano teatri stabili», e noi abbiamo sempre avuto il gusto di scherzare e prenderci in giro anche se lui, in privato, non era «nu pazzariello». Del resto, mica perché uno è attore comico deve passare la vita a far ridere gli altri, no? Nei suoi film vedo sempre tanto di lui e della nostra famiglia. In «Che ora è», ad esempio, quando tira l'orologio fuori dal taschino e dice «sono le tredici», Massimo cita papà, il suo modo da ferroviere di scandire ore e minuti, una finezza che mi ha dato un'emozione in più, mentre in «Le vie del Signore sono finite» c'è la tradizione della memoria storica narrata dai nostri nonni, nei loro racconti sulla guerra. «Scusate il ritardo», poi, più leggero, è proprio un ritratto delle dinamiche della nostra famiglia. 

Io credo che oggi Massimo possa ancora trasmettere un messaggio importante a quei giovani che si sentono bloccati e impotenti, che pensano non si possa fare nulla se non si va in televisione: se Massimo, nato in una cittadina che non figura nemmeno su tutte le carte geografiche, che non ha studiato recitazione, che non aveva un padre ricco e potente, che aveva pure una salute cagionevole, ce l'ha fatta ed è arrivato fino agli Oscar, partendo da San Giorgio a Cremano, allora bisogna imparare ad avere sempre fiducia in se stessi e nelle proprie qualità. In tanti anni di carriera Massimo non ha mai partecipato a un talk-show, non ha mai messo piede nel salotto di Costanzo e se fosse vivo oggi non andrebbe alle trasmissioni di Vespa: se lui ce l'ha fatta con queste scelte, allora vuol dire che tutti possono farcela, è questo il messaggio di ottimismo che ci ha lasciato. Spero che le nuove generazioni sappiano ascoltarlo.

Rosaria Troisi 
29/10/2005

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